Hidrogeno questo sconosciuto…Brindisi delle centrali

Bari. Lo scorso 17 dicembre, durante l’evento di lancio, dell’IPCEI (Importanti Progetti di Comune Interesse Europeo) sull’idrogeno, organizzato in videoconferenza dalla Germania e cui ha preso parte il Ministro dello Sviluppo Economico, Stefano Patuanelli, è stato sottoscritto dai Ministri di 22 Stati membri dell’Unione europea, a cui si è aggiunta la Norvegia, il Manifesto per lo sviluppo di una catena del valore europea sulle Tecnologie e sistemi dell’idrogeno. Obiettivo del manifesto è di garantire all’Unione europea la leadership nello sviluppo della tecnologia sull’idrogeno, favorendo al contempo sia la creazione di nuove opportunità occupazionali sia una riduzione delle emissioni in linea con gli obiettivi previsti dall’Accordo di Parigi e le politiche adottate dalla Commissione europea.

Intanto, l’altro giorno a Bari, in Commissione Consiliare Regione Puglia, si affermava l’interesse per una centrale (un’altra) a idrogeno sui terreni agricoli rientranti in area SIN della zona industriale di Brindisi (previa autorizzazione regionale). Brindisi, per le sue caratteristiche orografiche, sembra essere il sito ideale per tutte le tipologie di centrali da installare e da sperimentare; sito proposto anni addietro anche per una centrale nucleare. Mentre per un deposito di Gnl per il bunkering navale Brindisi non è adeguata e non si discute!

Ora che si propone per Brindisi una centrale ‘hub europeo dell’idrogeno’ tutti favorevoli per una tale sperimentazione. Si dimenticano le criticità ambientali nel territorio di Brindisi, riconosciuto area di elevato rischio di crisi ambientale e Sito di Interesse Nazionale, ai fini delle bonifiche di aree inquinate. E ancora, ci s’impegna a evidenziare sempre il contrasto che i nuovi progetti portuali ha nei confronti degli obiettivi ‘carbon free’ e con quelli del Green New Deal. Il progetto di una centrale a idrogeno, guidato dal gruppo Siemens, con altri otto partner, noto da qualche anno in ambienti PD nazionali, provinciali e regionali, con il nome di Prometheus, si svilupperebbe su un’area di circa 300 ettari e capace di rendere Brindisi un hub europeo dell’idrogeno verde. (L’idrogeno di verde poi  non ha niente).

Si produrrà idrogeno da fotovoltaico da immettere nella rete Snam e nella riconvertita centrale a turbogas di Enel; in più il progetto prevede la costruzione di una centrale a biomasse per la produzione di bio-gnl e bio-gas per alimentare i mezzi di trasporto locali, camion e navi da crociera; il combustibile (scarti di animali e vegetali per 254.000 tonnellate) da utilizzare in questa centrale arriverà su treni che giungeranno nella zona industriale e la linea sarà a cura del Consorzio ASI. L’investimento complessivo sarà di 300 milioni di euro; si prevede un’occupazione di 480 unità per i lavori di costruzione della centrale, di 370 unità come occupazione indiretta e a regime di 100 unità. Si spera e si auspica che investimenti del genere possano intercettare i finanziamenti dello Just Transition Fund, per il momento destinato solo a Taranto e non a Brindisi. In sostanza, però la maggior parte dello shipping sarà propulsa a Gnl, almeno fino al 2050.

In Italia, e precisamente a Fusina (VE), esiste già e funzionante la prima centrale elettrica Enel sperimentale al mondo (da 16 MW e dal costo di 50 milioni) che usa idrogeno (H2) come combustibile. Tale centrale è stata progettata con minori emissioni di anidride carbonica (CO2) di 17.000 tonnellate/anno, in confronto ad altre centrali termoelettriche e per fornire energia ‘pulita’ a 20 mila famiglie per 60 milioni di kWh/ annui. Sappiamo tutti, però, che i supposti cambiamenti climatici non sono tutti dovuti all’anidride carbonica antropica. Passando all’idrogeno – sconosciuto per i non addetti – rimangono alcune criticità che ancora non sono state risolte. Premettiamo che si è sempre favorevoli al cammino della Scienza e all’evoluzione delle Tecnologie, ma non a tutte le sperimentazioni ad ogni costo su un territorio che reclama da anni occupazione e sviluppo.

Sappiamo tutti che fine ha fatto il Centro ricerche dell’Enel che doveva sviluppare a Brindisi tutte le innovazioni di materiali possibili. E’vero che l’idrogeno sta guadagnando popolarità come energia chiave di prossima generazione per combattere il riscaldamento globale; si dice che non emette CO2 o altri gas serra durante l’uso e le applicazioni previste includono la produzione elettrica, l’alimentazione di celle a combustibile per veicoli e altro ancora. L’obiettivo è di rendere l’idrogeno una fonte di combustibile comune quanto il petrolio, però le criticità ancora rimangono.

1. Il costo di un kwh a idrogeno è maggiore di cinque/sei volte rispetto al kwh cd. ‘normale’. Per avere una potenza installata da 1.600 MW occorrono circa 6 miliardi di euro; mentre per una centrale nucleare di pari potenza ne occorrerebbero 3,5 miliardi.

2. Se si vuole una centrale a idrogeno che produca in un anno la stessa energia elettrica di una nucleare da 16.000 MW, ne occorre una da 3.800 MW che costa però 14 miliardi di euro; anche con un’economia di scala pari al 50%, il costo rimarrebbe sempre ‘proibitivo’.

3. L’idrogeno, sappiamo, che non è una fonte primaria di energia, perché non esiste libero in natura; ma come si dice in ‘chimica’, esso è  un ‘vettore energetico’ che  immagazzina energia e permette di trasportarla, per restituirla in modi diversi, quando e dove è necessario; vettore di energia – inodore, incolore, non corrosivo, si infiamma facilmente a contatto con l’aria, può esplodere, pericoloso e difficile da maneggiare e costoso – ottenibile per altre vie. Primo fra tutti vi è il metodo chimico detto “steam reforming”: sotto l’azione del vapore ad alta temperatura le molecole del gas si scindono e liberano l’idrogeno che contengono, però, formazione di anidride carbonica CO2 rigettata poi nell’atmosfera; con questo metodo, ricavando idrogeno dal metano, anche se è il più usato e il meno dispendioso, si ha un rendimento intorno al 70%. Il procedimento richiede l’uso di molta energia, nettamente superiore a quella ricavata dall’idrogeno ottenuto e bruciato poi nelle centrali termoelettriche al posto del metano e che emette in atmosfera più CO2 rispetto alle centrali cd ‘normali’.

Sempre con questo procedimento si consuma inutilmente metano – energia fossile – per convertirlo in idrogeno. Un altro metodo è di ottenere idrogeno dall’elettrolisi dell’acqua. Con questo procedimento si risparmia metano, ma si consumerebbe molta energia elettrica per garantire l’elettrolisi dell’acqua. Metodo più costoso del precedente e che si produrrebbe un’emissione in atmosfera di CO2 superiore al metodo precedente. Se si usasse, invece, l’elettricità prodotta da un impianto di fotovoltaico per generare l’elettrolisi dell’acqua, il costo dell’intero processo salirebbe di molto e 1 kwh da idrogeno costerebbe almeno 20/30 volte di più di 1 kwh cd ‘normale’, oltre ad usare molto territorio per l’installazione dei pannelli.

Ricordiamo che rispetto alle emissioni in atmosfera di CO2, una centrale a carbone da 54.000/60.000 tonnellate si ha per 1 kWh = 0,9-1,0 Kg CO2 eq.; mentre una centrale a metano turbogas  da 30.000 tonnellate si ha 1 kWh = 0,5 Kg CO2 eq.. La CO2 equivalente (CO2 e) è una misura che esprime l’impatto sul riscaldamento globale di una certa quantità di gas serra rispetto alla stessa quantità di anidride carbonica (CO2). Perciò, quando si dichiara che una centrale a H2 fa diminuire le tonnellate di CO2 emesse in atmosfera il confronto si riferisce solo alle centrali a carbone. E’chiaro che, allo stato attuale delle tecnologie note e applicabili, usare l’idrogeno come combustibile per ottenere elettricità diventa un problema complesso, soprattutto nel campo navale e relativamente al rapporto costi/benefici.

Infatti, l’IMO non a caso parla di transizione energetica usando prima il Gnl e poi dopo il 2050 si vedranno le applicazioni più affidabili per usare l’idrogeno come combustibile navale. Sperimentazioni navali sono già in atto. Per il suo uso a bordo di navi, però, sarà necessario realizzare dei contenitori compatti e molto resistenti, poco pesanti e di dimensioni contenute, sicuri e poco costosi. Ed essendo piuttosto improbabile la soluzione dell’idrogeno allo stato liquido (a temperatura di – 253 °C), la più promettente è quella di comprimerlo allo stato gassoso, a pressioni molto alte (fino a 700 bar) o con tecnica crio-compressa. Lo stoccaggio dell’idrogeno avviene nelle intercapedini di un cilindro metallico pieno.

Questo rappresenta un problema per le navi perché implica l’imbarco di peso elevato a bordo, alto contenuto energetico ma basso volume d’ingombro. Inoltre, una rete di distribuzione, con stazioni di bunkering sparse lungo la costa, richiede tempi lunghi di realizzazione non facilmente programmabili. Altro aspetto da risolvere è quello riguardante l’autonomia delle navi. Infatti, per navi di dimensioni maggiori, rotte più lunghe e potenze richieste maggiori, il sistema propulsivo che utilizza l’idrogeno non permette ancora un’adeguata autonomia. Questo è il motivo per cui le sperimentazioni, a oggi, interessano solo navi ro-pax, progettati per brevi tratte e con velocità contenute. L’Università di Genova sta sperimentando moduli di celle a combustibile (potenza di 200 kwh) adatti anche per rimorchiatori o navi più grandi, collegandoli in serie.

Oggi, l’uso dell’idrogeno è mirato solo alla logistica delle catene petrolchimica e chimica (80% dei consumi mondiali), che evidenzia un bisogno vitale d’idrogeno per molti dei loro processi produttivi, come l’eliminazione dello zolfo dai carburanti, il miglioramento dei greggi pesanti, la produzione dell’ammoniaca (da cui derivano i fertilizzanti) e inoltre additivi per combustibili. Sicuramente, una centrale è un’opportunità per un territorio, certo suggestiva, ma che si accompagna a molti problemi tecnologici non ancora risolti in modo soddisfacente e condizionati anche da altri fattori non certo eludibili: economici, politici, ambientali, sociali e di regolamentazione. Se Brindisi vuole sperimentare questa tipologia di centrali, e se la città lo vorrà, allora si potranno creare posti di lavoro a regime solo per i ricercatori e tecnici di laboratorio, sperando di non partecipare solo alla catena dei servizi di pulizia com’è successo per le altre centrali presenti sul territorio.

Abele Carruezzo