Non è la funzione di transhipment dei container, dalla ocean vessel a quella feeder, a portare economia ad un porto. Non solo, il vero valore aggiunto resta la capacità logistica di quel porto e di quel territorio a sdoganare, stoccare, manipolare, distribuire e far cambiare modalità di trasporto al container.
Da uno studio sui profitti della manipolazione dei container, presso l’Università Parthenope di Napoli – facoltà di Economia marittima -, risulta che il fatturato della manipolazione di un container passa da 300 euro a 2200 euro; l’utile da 20 euro a 200 mentre lo Stato ci guadagna dai 110 euro per container su banchina ai 1000 euro per movimentare lo stesso container.
Dal punto di vista lavorativo, bastano movimentare 1000 container per avere 40 unità lavorative per espletare tutte quelle operazioni di cui sopra. Insomma un porto per essere competitivo, oggi, deve avere delle caratteristiche, almeno nel settore dei trasporti unitizzati: banchine adeguate ad accogliere queste tipologie di navi con fondali a meno 16 (minimo);
piazzali attrezzati per lo sbarco di container e serviti da gru che possano sbracciare il fianco di una nave (per circa dieci file di container sul lato opposto alla banchina), senza creare problemi di stabilità; una velocità di sbarco container nella media mondiale di 22 unità/ora (Singapore ne muove 25/ora); una retroportualità per espletare quelle funzioni di una intermodalità integrata, servita da una efficiente logistica. Occorronno dunque programmazione e convinzione politica per investire e non proclami di accordi che passano da destra a sinistra, secondo l’onorevole di turno.