Port crash e limitazioni portuali

GENOVA – Porti non adeguati allo sviluppo tecnologico che ha generato navi sempre più grandi; informatizzazione navale e connessioni portuali;  specchi d’acqua portuale sempre più insufficienti a garantire sicurezza d’ormeggio  alle navi che scalano gli stessi porti; zone di avamporto per l’ancoraggio di navi sempre più affollate e tempi d’attesa per l’ingresso nei porti “monofunzionali”in aumento; incidenti marittimi ed urti fra navi in acque portuali sempre in aumento. Parlare di incidenti marittimi fra navi e fra navi e banchine diventa sempre più complicato poiché il problema coinvolge più inchieste da parte dell’Autorità Marittima e di vari Tribunali competenti per territori, oltre ad interminabili cause tra i diversi attori.

L’European Maritime Safety Agency (EMSA), nel suo rapporto relativo al periodo 2011/2014, scrive che il 42% degli incidenti, relativi a navi mercantili, petroliere, bulk carrier, passeggeri, traghetti, si è verificato in acque ristrette ed in particolare in acque portuali; e se si considerano quelli  verificatosi durante le fasi di manovra per ormeggio/disormeggio alle/dalle banchine la percentuale sale al 50%.

Ultimamente, a Genova si è parlato di port-crash e di limitazioni infrastrutturali dei porti italiani per le quali alcuni di essi sono fuori dai grandi flussi merceologici gestiti dalle mega navi. L’occasione è stata offerta dallo studio realizzato dai colleghi giornalisti, esperti di shipping, Bruno Dardani e Massimiliano Grasso. Uno studio, del tipo e-book con blog, oltre a filmati e foto, ha riguardato i casi più “social” di incidenti marittimi senza la pretesa di essere una specie di raccolta  di inchieste tecnico/amministrative su fatti accaduti.

L’obiettivo principale è stato quello di spiegare il perché urti e collisioni siano così frequenti  in acque ristrette, in specchi acquei portuali che stanno divenendo sempre più stretti; navi sempre più grandi che evidenziano molte difficoltà ad effettuare le manovre di ormeggio e/o disormeggio; porti che hanno banchine costruite nei decenni passati e che offrono servizi obsoleti non più adeguati alle esigenze delle navi moderne.  Lo studio relativo al port-crash presentato conferma che sono stati 470 gli urti di navi contro banchine dei porti italiani dal 2011 al primo trimestre del 2016.

Lo studio non tralascia l’importanza di una formazione professionale per le figure che operano nella filiera portuale e che vanno comunque riformulati gli obiettivi per una formazione di qualità  e competitiva. Ancora una volta viene dimostrato che parlare di porti e di portualità non riguarda solo ed esclusivamente una “governance”, ma  ricordare che un porto deve e dovrà garantire sicurezza alle navi, persone e merci. E se in questi ultimi decenni le navi sono cambiate i porti si dovranno adeguare e corrispondere servizi tecnico-nautici adeguati ed agili.

Quindi non basta dire che un porto è importante, “core”,  solo se lo dichiara la burocrazia europea, o quella italiana; non basta dire che un sistema portuale ha banchine (virtuali) lunghe quanto una regione; una piattaforma logistica naturale e tanti altri slogan che non dicono nulla e non convincono lo shipping internazionale.

Oggi, è importante la geografia del sito per le rotte merceologiche e l’orografia del bacino/bacini portuali, che devono sempre garantire un più sicuro atterraggio, ancoraggio e attracco alle navi di qualsiasi tipologia e grandezza, unitamente ai propri parametri di efficienza/efficacia delle banchine, terminal capaci di ospitare navi moderne e piazzali retroportuali operativi connessi ed interconnessi a rete. Sistemi portuali con banchine, con parametri  di servizi tecnico/nautico/amministrativi consoni alla sfida di oggi per non essere tagliati fuori dai flussi merceologici/passeggeri delle grandi navi.

 

Abele Carruezzo