Oceani di plastica: l’Indonesia rimanda al mittente i rifiuti provenienti dall’Europa

Una comunità di attivisti della società civile indonesiana ha pubblicato recentemente un piano d’azione congiunto per la lotta contro l’inquinamento da plastica e rifiuti. Si tratta di un Documento d’Azione Strategico che impedirebbe l’ingresso in oceano di circa 16 milioni di tonnellate di plastica. Il motto è “Radically Reducing Plastic Pollution”: in altre parole “Ridurre Radicalmente l’inquinamento da plastica in Indonesia”. Una scelta ambiziosa, ma necessaria, visto l’attuale scenario ambientale nel sud-est asiatico.

Con i suoi 267 milioni di abitanti l’Indonesia è il secondo Paese al mondo che contribuisce all’inquinamento da plastica negli oceani, dopo la Cina. Quasi il 15% di tutti i rifiuti di plastica che finiscono negli oceani proviene da questo Stato-Arcipelago. Quattro dei suoi fiumi sono tra i primi venti fiumi inquinati al mondo. Si stima, infatti che gli indonesiani usino più di 93 milioni di cannucce di plastica ogni giorno e più di 9,8 miliardi di sacchetti di plastica ogni anno. Quasi il 95% di questi sacchetti si riversano nelle acque interne e nell’oceano. Non è difficile immaginare quindi che non sono solo i nostri oceani e la vita marina a risentire fortemente dell’inquinamento da plastica; ma gli effetti dannosi ricadono soprattutto sulla popolazione locale che vive a stretto contatto con l’ammasso di plastica lungo le zone costiere. Più di 200.000 tonnellate di plastica finiscono ogni anno negli oceani del mondo dai fiumi dell’Indonesia.

In tutti questi anni, vani sembrerebbero essere stati i continui sforzi del governo indonesiano e dei pescatori locali, nel combattere una battaglia senza fine contro l’inquinamento da plastica nei fiumi. I pescatori lamentano un calo sempre più marcato del pescato, causato da una maggiore presenza di plastica che interferisce con le eliche delle barche da pesca, intasando le reti fisse, lasciando poco spazio per pesci e cozze. Tuttavia, il fenomeno dell’inquinamento da rifiuti in mare non dipende solo delle abitudini poco ecologiche della popolazione indonesiana.

Da una recente inchiesta di Greenpeace Italia, citata anche dall’Istituto Affari Internazionali e dal Quotidiano inglese The Guardian, esisterebbe una cosiddetta “rotta dei rifiuti”: una sorta di traffico illegale via mare di rifiuti in plastica non riciclabili proveniente dall’Europa e che vede il suo mercato fiorire proprio nel sud-est asiatico. Uno dei maggiori esportatori di rifiuti in plastica è proprio l’Italia, che si trova all’undicesimo posto della lista Top21 degli esportatori, con una percentuale di rifiuti esportati del 2,25%. L’indagine condotta da Greenpeace Italia, lo scorso febbraio, ha rivelato che nei primi nove mesi del 2019 quasi la metà dei rifiuti di plastica italiani inviati in Malesia è stata spedita illegalmente via mare stipati in container privi di un permesso e quindi operante senza alcun riguardo per l’ambiente e la salute umana, in palese violazione delle leggi nazionali e dell’UE. L’analisi di Greenpeace si è concentrata soprattutto sui rifiuti di plastica misti, ad esempio contenitori, involucri, pellicole industriali e residui di plastica di ogni tipo, ampiamente utilizzati nella nostra vita quotidiana, ma difficili da riciclare.

Fino a due anni fa, questi rifiuti venivano spediti principalmente in Cina, che assorbiva fino al 42% dei rifiuti in plastica italiani esportati al di fuori dell’UE. Queste esportazioni sono effettuate da imprese private e intermediari, non dal governo o dagli enti locali. Forte e risoluta è la risposta del governo italiano che intende mettere fine e contrastare l’esportazione illecita di rifiuti di plastica nel sud est asiatico. Il report di Greenpeace Italia evidenzia in particolare che delle 2.880 tonnellate di rifiuti di plastica esportati in Italia tra gennaio e settembre dello scorso anno, quasi la metà è stata ricevuta da società che operano illegalmente con la complicità  di controlli poco rigorosi e alle volte lassisti, nei porti. Questo significa che un’enorme quantità di plastica contaminata e difficile da riciclare, viene spedita fuori dall’Europa, finisce per essere accatastata o bruciata in fabbriche illegali.

In una recente intervista rilasciata al The Guardian, Giuseppe Ungherese, portavoce per la campagna anti inquinamento di Greenpeace Italia, ha affermato: “Il governo italiano non può fingere che non stia succedendo nulla illegalmente – deve intervenire”. E aggiunge: “Sappiamo che solo un piccolo numero di container che lasciano i porti italiani sono adeguatamente controllati. Un paese civile non può chiudere gli occhi e scaricare il problema su una nazione meno sviluppata: è come pulire la casa ma nascondere la polvere sotto il tappeto”.

In seguito al divieto cinese alle importazioni di rifiuti, avvenuto nel gennaio 2018, le esportazioni globali di plastica sono diminuite di circa la metà, lasciando che gli ex paesi-esportatori, rimasti con un’eccedenza di rifiuti non trasformati, o non trattati in modo inadeguato, si rivolgessero ad altri paesi del sud-est asiatico, tra cui la Malesia. Paesi meno regolamentati, e che non dispongono di restrizioni adeguate alle importazioni di grandi dimensioni, o aventi capacità di gestione dei rifiuti. L’Indonesia è tra le nazioni maggiormente colpite dall’inquinamento da plastica e dai rifiuti mal gestiti, ed è proprio per questo che un anno fa è stato lanciato dal governo indonesiano, in collaborazione con il Global Plastic Action Partnership (GPAP), una piattaforma di riferimento sui rifiuti innplastica, ospitato presso il World Resources Institute (WRI) a Giacarta.

Tra i punti del Piano Strategico, per cambiare l’attuale scenario ambientale di crisi, sono enunciati alcuni punti importanti tra cui: intensificare la raccolta di rifiuti in plastica  entro il 2025 dell’80%, creando 150.000 posti di lavoro in più, ma soprattutto costruire ed espandere impianti controllati di smaltimento dei rifiuti per gestire in modo sicuro i rifiuti di plastica non riciclabili.

Elide Lomartire

 

Foto: Ohga!