A margine della XII Convention dei Propeller Clubs italiani, svoltosi nei giorni scorsi a Brindisi, fra le relazioni tecniche sulle infrastrutture portuali, spicca la relazione di un sociologo, Lele Amoruso, che ha spostato il baricentro delle relazioni marittime e trasportistiche sul “consenso” pubblico di un territorio, diversamente dai popoli antichi che per trasportare merci da un porto ad un altro non avevano bisogno di Piani regolatori portuali, perché l’architetto portuale ed il presidente dell’autorità era la natura che disegnava geograficamente la polifunzionalità di un porto.
Abbiamo capito quale porto cerchiamo? Oggi, sappiamo che il trasporto marittimo è la modalità più utilizzata nei trasferimenti intercontinentali poiché permette lo spostamento di volumi consistenti con consumi energetici relativamente ridotti e con un grado di avarie/incidenti più basso rispetto ad altri modi di trasporto. Uno dei fattori che ha rivoluzionato il settore dei trasporti marittimi è stato l’avvento del container che ha modificato soprattutto tempi e modalità di carico e scarico, organizzazione del lavoro portuale e fabbisogni infrastrutturali. Il ruolo stesso del porto ha superato la semplice funzione di interfaccia tra mare e terra.
Un porto commerciale moderno si configura infatti come una vera e propria piattaforma logistica nella quale interagiscono diversi operatori. Le compagnie armatoriali di rilievo mondiale, pur non essendo gli unici attori dello shipping, hanno un’influenza determinante sulle sorti dei sistemi portuali, poiché sono loro che applicano la scelta dei porti da scalare, a seconda delle rotte di volta in volta seguite. Gli elementi che contribuiscono a rendere uno scalo più competitivo rispetto ad altri, capace di attrarre maggiori flussi di traffico appartengono prima di tutto alla sfera del “consenso” pubblico di un territorio e poi alle peculiarità delle infrastrutture: posizionamento geografico, collegamenti dello scalo con le modalità terrestri e la presenza di centri logistici: il porto viene considerato come perno di un sistema logistico più o meno ampio e diffuso che, attraverso una capillare infrastrutturazione lato terra ed una migliore organizzazione e governance dei processi, tende verso una maggiore propensione all’integrazione con il proprio sistema produttivo territoriale (Theo Notteboom).
Ed allora come si creano le infrastrutture del consenso? Come costruire consenso e cittadinanza competente? Si può guarire dalla sindrome di Nimby, da quella di Nimto (Not In My Term of Office)? “Il territorio non può essere disegnato da chi non lo conosce e non lo vive” ha detto il sindaco Domenico Mennitti. Ma possono gli stakeholders ignorare o eludere le volontà della popolazione? A queste domande il sociologo Lele Amoruso ha cercato di dare una risposta.
Foto: Simone Rella
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