E’ opinione di molti che nei porti “statali” si verifica una bassa produttività del lavoro portuale, mentre il “privato” è efficiente ed efficace ed è per questo che una riforma portuale coinvolge ed associa sempre una riforma del lavoro portuale.
Questi sono i “pensieri” di una portualità mediterranea che desidera ripercorrere le riforme già attuate negli USA e nel regno Unito; già superate da parte loro e che pensano a nuove riforme, mentre da noi è “america”. Andiamo per ordine.
Nel Regno Unito e in America il lavoro portuale è stato già riformato; in Europa e soprattutto in Italia la cautela è d’obbligo in questa materia e si dice che non si riforma per via dei sindacati che oppongono delle difficoltà, specie quando si parla di privatizzare i porti (vedasi Grecia, Spagna).
Un Governo che si rispetti deve creare occupazione diretta ed indiretta nelle regioni marittime a cui il nodo-porto fa riferimento; un lavoratore del porto chiede stabilità di reddito e sicurezza; per cui riformare una portualità e di conseguenza il lavoro portuale con obiettivi di privatizzazione occorre un “consenso” da costruire e non da imporre.
Aumenta il commercio, aumentano il numero di navi; navi da crociera esigono accoglienza e servizi ai passeggeri; navi tipicizzate hanno bisogno di terminal adeguati; tutto questo comporta una organizzazione del lavoro portuale più efficiente e per rendere un porto più operativo rispetto ad un altro occorrono approcci sindacali concertati e sistemici.
In Inghilterra, il governo, trent’anni fa, abolì il National Dock Labour Scheme; mentre altri Paesi, compresa l’Italia, hanno preferito la gradualità pervenendo a più riforme incentrate sempre sul “dock work” e “dock worker”; anche se l’art. 137 della Convenzione ILO (International Labour Organization) garantisce l’iscrizione/registrazione dei lavoratori portuali con priorità di assunzione per il lavoro portuale.
Anche su questo articolo non esiste uniformità: in alcuni porti, l’espressione lavoro portuale è limitata alle attività di carico/scarico delle navi all’interno dell’area portuale definendole “operazioni portuali”; in altri porti sono incluse tutte le forme di manipolazione della marce in una specifica area portuale, comprendendo magazzinaggio, riempimento e svuotamento, carico e scarico da imbarcazioni (maone, chiatte ecc.), camion, vagoni di treni, attività logistiche ecc.
In questo senso, la Francia, nel 2008, inizia una riforma a tutt’oggi in corso: l’Autorità portuale di Le Havre viene rinominata Grande Porto Marittimo di Havre comparato a Porto Autonomo di Havre; gestito da un Management Board, sotto la supervisione di un Supervisory Board e con un grande comitato portuale; così nei porti di Marsiglia, Rouen, Bordeaux, Dunkirk, La Rochelle e Nantes-Saint- Nazaire. Insomma grandi autorità portuali territoriali.
I lavoratori portuali nei porti francesi hanno un loro specifico ruolo nelle squadre (caporeparto, leader di banchina, guidatore di reach stacker, etc.); anche se esiste una certa flessibilità, il reclutamento avviene soprattutto per la professionalità nella squadra e per merceologia e con formazioni continue on the job. I principali porti francesi si stanno attrezzando per il trasferimento al settore privato da tempo atteso per maggio 2011, ai sensi della riforma portuale francese.
L’accordo entrerà in vigore presso il più grande porto containerizzato del paese, quello di Marsiglia Fos, a fine maggio, e a seconda del terminal coinvolto, qualcosa come 400 dipendenti dell’autorità portuale saranno trasferiti a società di stivaggio private o parzialmente private. Mentre, i terminal petroli di Fos e Lavera – d’importanza nazionale – saranno gestiti da una società privata appositamente costituita in cui l’autorità portuale detiene una quota di maggioranza.
Abele Carruezzo