Brexit opportunità o necessità?

Ultimamente uno dei temi maggiormente seguiti o per meglio dire balzati all’interesse dell’opinione pubblica mondiale è la Brexit, ossia la possibilità sempre più concreta che la Gran Bretagna possa definitivamente uscire dall’Unione Europea. La famigerata Brexit, ossia Britain Exit, è solo il punto di sintesi di un rapporto storicamente difficile, di oltre settant’anni tra l’Impero inglese e il progetto politico dell’Europa. Tale relazione si delineò difficile sin dall’inizio: già nel 1930, in effetti, quando il progetto europeo era di pertinenza solo di un selezionatissimo ed esiguo numero di insigni intellettuali.

È in quell’anno infatti che Winston Churchill, uno dei maggiori alfieri dell’unità europea, ebbe a sostenere, sulle pagine del Saturday Evening Post, che l’Inghilterra sarebbe stata sicuramente partner dell’Europa, ma non né sarebbe stata membro poiché: «L’Impero inglese è una grande potenza europea, ma è anche una grande e crescente potenza americana, è una delle grandi potenze asiatiche e la maggior potenza africana, ma è soprattutto il centro e il motore del British Commonwealth»1.

Naturalmente non si può, in assoluto, non rimanere abbagliati dall’ars oratoria di uno dei più affascinanti ed importanti uomini politici del ventesimo secolo, ma questo breve scampolo di discorso ci consente di comprendere con nitida chiarezza come nel popolo inglese l’impronta imperiale abbia da lungo tempo assunto un valore quasi genotipico. In pratica la vita politica inglese si può ancora sintetizzare con il celeberrimo canto Rule Britannia (del 1740 composto da Thomas Arne: …Domina Britannia, domina le onde, I britanni non saranno mai schiavi…). Quindi non si sarebbe molto lontani dalla verità qualora si sostenesse che il partito di chi voleva un’Europa delle nazioni (unionisti) in Inghilterra fosse più ampio di quello dei federalisti.

Chi studia la creazione e la storia dell’Unione Europea sa bene che in realtà questo progetto politico, ancora in itinere, troppo spesso per necessità o per volontà ha scelto la terza via, ossia quella funzionalista creata da Jean Monnet, il vero ideatore della CECA. Certo tale sistema ha il pregio di realizzare i progetti scavalcando il dibattito su quale Europa si desiderasse evitando sapientemente d’impelagarsi in delicate disquisizioni sulla genesi europea, che per oltre un secolo hanno infiammato i cuori dei politici mondiali.

In pratica il sistema funzionalista risponde all’assunto machiavelliano della Ragion di Stato, ma di contro svilisce il ragionamento e il confronto necessario per la realizzazione del progetto comune. Ora, naturalmente, il presente lavoro non ha lo scopo di fare un trattato sulla nascita dell’Unione Europea, ma alcune semplici e brevi precisazioni ci consentono di creare quella griglia interpretativa indispensabile per meglio analizzare la decisione del popolo inglese di porre fine alla sua avventura europea.

Se è pur vero che la parola definitiva deve passare al Parlamento inglese è anche vero che le immagini dei deputati europei inglesi giratisi di spalle durante l’esecuzione dell’inno europeo (la nona sinfonia di Beethoven “Inno alla gioia”) sta facendo il giro del mondo impazzando letteralmente sui social media. Un’immagine forte che sintetizza questo articolato e difficile rapporto. È davvero molto complesso per qualsiasi analista delineare quali siano le cause che stanno conducendo a tale rottura; naturalmente i fattori di matrice politico-economica sono quelli che balzano in evidenza. Tuttavia, muovendosi nel mero campo delle ipotesi possibili non compare nel dibattito pubblico nazionale la motivazione “Rotta Artica”.

Generalmente in Italia quando parliamo di tale rotta ci riferiamo a quella russa o meglio al Northeast Passage ossia a quel tratto di rotta che va da Vladivostok a Murmansk (si veda il Nautilus del 12 gennaio 2019). In realtà esso è solo una delle rotte artiche. Poiché lo scioglimento dei ghiacci ha consentito, o meglio, agevolato anche il passaggio ad ovest del Northwest Passage, ossia quella rotta che va dal porto di Vancouver fino al confine con il Maine. Ambedue hanno il notevolissimo pregio di diminuire sensibilmente le giornate di navigazione, causando un consistente risparmio sui costi di trasporto, di produzione e quindi di vendita dei beni.

Analizzando la cartina geografica del mondo si nota che, se da un lato, l’Est Route è a quasi esclusivo appannaggio russo, la West Route passa tra le acque nazionali canadesi, dell’Alaska e della Groenlandia. In pratica si può affermare che quella ovest è dominata dai porti canadesi (Vancouver, il porto di Churchill nella Baia di Hudson, e quello di Saint John) oltre al porto di Anchorage in Alaska. Un vantaggio strategico non da poco nel mondo della Blue Economy, dove il trasporto marittimo ha assunto un valore massimo mai avuto in precedenza. È Infatti divenuto quasi banale affermare che il mondo, in verità da secoli, si muove e si sviluppa attraverso il trasporto marittimo e quindi le sue rotte.

La creazione delle Panamax e il gigantismo navale ne sono una conferma. Tornando alla West Arctic Route, si noterà che nel tratto tra l’ultimo porto canadese e i porti del nord Europa compare solo il porto di Reykjavik come scalo intermedio, per poi approdare ad un porto inglese. Lo scalo della capitale islandese da poco è stato ampliato e potenziato con finanziamenti privati. In pratica, escludendo quindi il porto di Reykjavik e quello di Anchorage, si può stabilire che la rotta occidentale sia saldamente controllata da porti appartenenti al Commonwealth britannico, con le isole britanniche che divengono perfetta sintesi tra le due rotte, in quanto quasi equidistanti tra esse.

Il particolare rapporto che l’Inghilterra ha con i paesi dell’EFTA (European Free Trade Association), di cui ha fatto parte fino al 1972, non è stato mai reciso e non si è mai assopito. In questo quadro è infatti interessante notare come il rapporto politico, ma soprattutto economico, tra Regno Unito e Norvegia sia stato sempre molto intenso e collaborativo. Infatti proprio la Norvegia con la sua posizione geografica, con i sui fiordi che consentono la realizzazione di nuove strutture ed insediamenti portuali ad alti fondali, e naturalmente i suoi porti, assume un valore strategico particolare nel rapporto Inghilterra-Rotte Artiche-Europa.

Il Commonwealth esiste non solo come struttura politica, ma anche e sopratutto come mercato internazionale, un mercato fondato sulla circolazione della sterlina inglese. Esso, in libera autonomia, stringe rapporti ed accordi con il mercato europeo e con quello afferente agli Stati Uniti d’America. Certo tra i mercati citati e forse quello con il volume d’affari minore, ma rimane sempre un ottimo strumento saldamente controllato da Londra.

Ora la sovranità monetaria, un mercato comune con ben 53 stati, un rapporto preferenziale con i paesi dell’EFTA, la supremazia portuale nel Northwest Passage, e una posizione geografica invidiabile che consente d’essere il trait d’union naturale tra le due rotte artiche, potrebbero costituire quel pacchetto di motivi giustificatamente validi per non avere più la necessità d’essere parte di una confederazione di Stati europei con i quali condividere tali vantaggi. In pratica perché rimanere in Europa, che ha una moneta concorrente con la sterlina ed un mercato autonomo incentrato per lo più sulle esigenze franco-tedesche?

In fondo, e bene ricordarlo, che la Norvegia decise di non aderire al progetto europeo proprio per difendere la propria leadership sul mercato mondiale del pescato. Non v’è dubbio alcuno che il consolidamento delle rotte artiche porterebbe gran giovamento al governo di Sua Maestà britannica, che potrebbe considerare questo eccezionale evento come il trampolino di lancio per un rinnovato ruolo imperiale della politica inglese.
Appunto: Rule Britannia! Britannia, rule the waves…

Alessandro Mazzetti