Distanza ideale tra le infrastrutture portuali: l’India affronta il tema

NEW DELHI – Infrastrutture portuali estremamente vicine, investimenti simultanei, redditività prossime al lumicino ed aggressione di medesime forme di business e/o traffico. Simili scenari balzano sempre più frequentemente agli onori della cronaca non solo nel vecchio continente – la disamina della Corte dei Conti UE ne costituisce preziosa testimonianza – quanto, invece, in tutto l’ambiente internazionale.

Il Ministero della marina indiana, ad esempio, è recentemente intervenuto sul tema poiché, anche a quelle latitudini, sono oramai frequenti i casi di concorrenza interna tra i vari scali portuali.

Poche settimane fa, infatti, il Ministero di Nuova Delhi ha formalmente richiesto al Governo del Bengala Occidentale di rivedere il progetto di sviluppo di un nuovo porto industriale a Tajpur, città appartenente al Distretto di Midnapore Est: nonostante l’apporto finanziario di investitori privati, il governo centrale teme che il nuovo scalo possa finire per cannibalizzare i due vicini porti di Haldia e dell’Isola di Sagar. Quest’ultimo, attualmente in costruzione, sarà direttamente controllato per il 74% del proprio capitale sociale direttamente dal Governo indiano, mentre la restante quota del 26% sarà appannaggio del Governo del Bengala Occidentale.

Eppure, pochi mesi or sono, lo stesso Governo di Nuova Delhi ha autorizzato la realizzazione di un hub per il transhipment nello Stato del Tamil Nadu, esattamente a soli 36 chilometri di distanza da Vichinjam dove sono in atto la costruzione di un nuovo porto e la predisposizione di un’annessa area franca. Come se non bastasse, la stessa Vichinjam entrerà in rotta di collisione con lo scalo di Kochi dove, dal 2011 e per volontà della Dubai Port Authority, esiste il primo hub indiano per transhipment con una odierna capacità di 1 milione di TEU’s.

Messi da parte i cerchiobottismi del Governo indiano, appare lapalissiano come queste vicende sottendano il reale leitmotiv, vale a dire la distanza geografica ideale tra le infrastrutture portuali. I vari stati indiani nonché il Governo centrale hanno sinora manifestato approcci differenti in subiecta materia, peccando peraltro di strategica lungimiranza e lasciando emergere una forte disomogeneità normativa. Perché, al momento, esistono stati costieri che concedono inopinatamente ai vari terminalisti diritti di utilizzazione esclusiva dei porti nel raggio di 30, a volte 80, chilometri.

Nel Kerala, invece, il governo locale ha introdotto un divieto quindicennale di realizzazione di nuove infrastrutture portuali che rientrino nel raggio d’azione (i.e. 100 chilometri) di scali già esistenti; peccato che codesta clausola divenga operativa soltanto in caso di incrementi della capacità di carico superiori al 90% per anno. Un altro, “apparentemente virtuoso”, caso è dato dai porti appartenenti ai territori dell’Unione dove le locali Autorità portuali concedono aree demaniali per la realizzazione di nuovi terminal portuali a patto che siano decorsi cinque anni dalla realizzazione di quelli ivi esistenti e questi ultimi abbiano conseguito, per almeno un biennio, volumi di traffico pari al 75% della capacità preventivata in fase progettuale.

Tuttavia, parrebbe che i recenti accordi locali di partenariato vedano al ribasso questa soglia e predispongano modelli di concessione più permissivi per gli operatori internazionali. Il mantra del “Big is better” è ancora duro a morire per il governo di Narendra Modi.

 

Stefano Carbonara