I porti possono essere centri operativi per la decarbonizzazione

Dal carbone al petrolio è stata l’ultima transizione energetica che lo shipping internazionale ha registrato nella sua storia, durata cinquant’anni.

Londra. Molti porti, nel mondo, ormai sono impegnati in progetti per ridurre i rischi ambientali e per soddisfare le ambizioni IMO 2050.

Secondo un rapporto dell’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO) nel 2020, il trasporto marittimo produce circa il 2,9% delle emissioni di anidride carbonica prodotte dall’uomo nel mondo. L’ambizione IMO è di ridurre le emissioni di gas in atmosfera prodotte dallo shipping internazionale a non meno del 50% entro il 2050, con un obiettivo allungato di un’altra riduzione del 100% entro la stessa scadenza.

L’incertezza che rimane è che tale obiettivo non può essere raggiunto solo con misure di efficienza energetica tutta applicata alle navi, ma è necessaria una transizione energetica dai combustibili fossili.

Una ricerca ultima del Lloyd’s Register ha dimostrato che per raggiungere l’ambizione dell’IMO, entro il 2030 dovranno essere utilizzate navi a zero emissioni di carbonio in grado di viaggiare in alto mare e su rotte transoceaniche (cioè non solo lungo la costa o su rotte di gran cabotaggio).

La ricerca rileva che l’ultima transizione energetica – dal carbone al petrolio – è avvenuta nell’arco di cinquanta anni e il petrolio era più economico, più pulito, abbondante, più denso di energia e sicuro da maneggiare. I futuri combustibili di cui si discute ora – metanolo, idrogeno e ammoniaca – non hanno nessuna di queste caratteristiche.

Infatti, la densità energetica di questi nuovi combustibili (importante per lo shipping) è almeno la metà dei combustibili odierni, questo significa che sarà necessario più spazio sulle navi per trasportare il carburante extra e per dedicarlo al relativo bunker.

L’analisi LR prevede che questi combustibili saranno anche 2-4 volte più costosi.

Un’altra complicazione è che questi combustibili possono provenire da molte fonti diverse, alcune con emissioni del ciclo di vita più impattanti o simili ai combustibili di oggi.

Ci sono anche preoccupazioni per la sicurezza sulla natura pericolosa dei combustibili del futuro. L’uso sicuro di questi combustibili è disciplinato dalle normative sul controllo dei pericoli d’incidenti rilevanti (COMAH Control of Major Accident Hazards) a terra.

Queste regole definiscono le soglie per le quantità di sostanze pericolose che possono essere immagazzinate.

Ciò è di particolare rilevanza per i porti a causa dei limiti per i combustibili pericolosi che possono essere stoccati vicino ai centri abitati e sarà necessario prendere in considerazione il bunkeraggio delle navi nei porti; le guide per il bunker di tali combustibili sono ancora in fase di studio.

Nel Regno Unito, ad esempio, sarà necessario un allineamento nel panorama normativo: Health and Safety Executive (HSE) per le autorità di terra, Maritime and Coastguard Agency (MCA) per le Autorità portuali di base e statali. Questo non sarà importante solo per l’Inghilterra, ma si hanno conflitti di norme e regolamenti tra vari enti/ministeri di terra e di mare in un paese e tra paesi e l’Europa.

Lo shipping non potrà da solo farsi carico di questa sfida.

Con molti settori terrestri che cercano anche di decarbonizzare, i porti possono essere visti come l’interfaccia per soddisfare il fabbisogno della domanda dall’importazione di combustibili e potenzialmente risolvere il problema della domanda e dell’offerta e dei progetti di riduzione dei rischi tra diversi portatori di interessi. I porti hanno il potenziale per essere un fulcro/acceleratore per la transizione a zero emissioni di carbonio del settore marittimo. Questo però è il solito dilemma: se accelerare la decarbonizzazione a terra e poi alle infrastrutture portuali e a mare, oppure il contrario!

Le navi avranno bisogno del carburante, quindi i porti dovranno rifornirlo; ma se i porti utilizzano il carburante per altri scopi, l’infrastruttura portuale cambia la sua funzione operativa attorno a quel carburante in grado di rifornire le navi.

Questo è il motivo per cui la collaborazione intersettoriale sarà così importante per unire i puntini tra le industrie, cioè efficientare le filiere. Se un porto importa idrogeno per altri scopi, allora dovrebbe pensare a come può essere utilizzato per i propri scopi, ad esempio per alimentare gru, carrelli merci e per navigazione locale/portuale, come rimorchiatori, pilotine e altro traffico locale, sotto il controllo stesso dell’Autorità Marittima del porto.

È probabile che ciò sia guidato da una politica con un obiettivo locale o nazionale nel raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione.

Il porto può quindi cercare di ampliare tale obiettivo per supportare l’industria della navigazione d’altura. Una volta che più di un porto supporta l’infrastruttura e c’è commercio tra questi porti, allora quel commercio può iniziare a passare attraverso una transizione energetica.

È fondamentale vedere come si sviluppa un tale obiettivo nel prossimo decennio.

Di recente, il porto di Cromarty ha annunciato di collaborare con l’industria del whisky per sviluppare un hub d’idrogeno verde, che produce idrogeno da parchi eolici offshore e onshore. Si tratta di un investimento significativo che può essere distribuito tra più parti interessate, riducendo così i rischi del progetto e riducendo le emissioni di gas serra.

Alcuni altri esempi sono il porto di Anversa che forma un consorzio con DEME, Engie, Exmar, Fluxys, il porto di Zeebrugge e WaterstofNet (società specializzate in ingegneria ambientale marittima) per stabilire una catena del valore dell’importazione d’idrogeno completamente rinnovabile entro il 2030.

Il porto di Amburgo ha annunciato che sta lavorando con Vattenfall, Shell, Mitsubishi Heavy Industries e Warme Hamburg per sviluppare un elettrolizzatore da 100 MW per produrre idrogeno verde.
Il prossimo passo è guardare al commercio marittimo tra questi porti per creare “corridoi verdi”. Questi esempi sono nella giusta ‘transizione’ e sono esattamente le tipologie di collaborazioni che l’industria richiede, e dimostrano come più parti interessate possono creare una preziosa catena dell’idrogeno.

Abele Carruezzo