Le infrastrutture portuali del ‘consenso’

Brindisi. In più occasioni il Propeller Club Port of Brindisi ha evidenziato che Brindisi e il suo porto soffriva e forse soffre ancora di un fattivo ‘consenso’ da parte delle Amministrazioni locali (Comune, Provincia e Regione) verso alcune infrastrutture portuali. Stabilire un rapporto proficuo con l’AdSP diventa fondamentale e urgente per accelerare i tempi della progettazione e realizzazione d’infrastrutture portuali che rivestono molta importanza per lo sviluppo della stessa città e del territorio regionale (il riferimento è alle Zes Puglia – Molise).


Chi stabilisce il ‘consenso’ popolare per alcune infrastrutture rispetto ad altre? Il Consiglio Comunale, la Giunta o il Sindaco?


Non solo, ma quale visione di porto è valida? Quella del Sindaco Rossi o quella dell’assessore Borri, quella della Giunta o quella tanto acclamata e sbandierata dal PD cittadino quando nel 2019 affermava: “ Il Consiglio Comunale è l’unica assemblea deputata a decidere per il futuro di Brindisi”? Domande che a Brindisi sicuramente fanno trapelare un ‘consenso’ negato e forse per questo che investitori, industrie vecchie e nuove, armatori hanno difficoltà a scalare il porto di Brindisi!
Il ‘consenso’ pubblico e di un territorio (l’adesione solo dei portatori d’interesse necessaria non è sufficiente) è un elemento importante per rendere uno scalo più competitivo rispetto ad altri capace di attrarre maggiori di flussi di traffico.

Ricordando la definizione di porto del prof. Theo Notteboom, Università Erasmus di Rotterdam – “il porto viene considerato come perno di un sistema logistico più o meno ampio e diffuso che, attraverso una capillare infrastrutturazione lato terra ed una migliore organizzazione e governance dei processi, tende verso una maggiore propensione all’integrazione con il proprio sistema produttivo territoriale”- si evince quanto sia importante il ‘consenso’ pubblico prima delle caratteristiche geo-orografiche di un sito anche con presenza di collegamenti intermodali e con presenza di centri logistici.
Ne scriviamo perché la ri-partenza del post-covid sta mettendo in luce le criticità di una legge portuale (quella ultima di Delrio) sul ruolo degli Enti locali e territoriali nella governance dei porti italiani. Una legge che, per accelerare lo sviluppo dei porti italiani e renderli più competitivi in Europa e non solo, sta centralizzando sempre più l’azione statale senza realizzare quel ‘consenso’ territoriale di cui si parlava prima.

Questo ha comportato la nascita di nuove sovrastrutture di governo locale (cabine di regia soprattutto al nord Italia) in contrapposizione con il Governo centrale e che stanno generando più burocrazia e meno competizione fra porti italiani, relegando le Autorità di Sistema Portuale alla sola competenza concessoria e regolatoria, senza capacità di investimento e con un rapporto con il territorio senza ‘consenso’.
Com’è successo nella Sanità (mascherine, vaccini, tamponi, green pass) con la materia concorrente per il Titolo V dell’ordinamento costituzionale, l’aver sommato e sovrapposto ruoli e funzioni centrali e periferiche, aumentando il disordine amministrativo e rallentando ulteriormente il processo decisionale pubblico, lo stesso sta accadendo nella portualità, ma che non potrà essere accettato.


Un Sindaco, una Giunta della città che ospita un porto non potrà decidere la strategia portuale nazionale ed europea se quel porto è considerato strategico e polifunzionale dal Piano Nazionale della Portualità e della Logistica. Certo il Comune, sede di porto, o la Regione, sede di sistema portuale, potranno concertare con le AdSP (perché rappresentati in seno ai Comitati di gestione) la loro vision per generare il ‘consenso’ alle infrastrutture e per rendere compatibile lo sviluppo del porto con la propria pianificazione territoriale. Se si è convinti di questo, non si potrà essere sempre contrari solo per puro ‘potere’ politico; potere politico manifesto ‘diverso’ da un Sindaco, da un assessore o da una forza politica di maggioranza o da un deliberato del Consiglio Comunale.


La strategia dello sviluppo della portualità deve rispondere a criteri nazionali, che devono guidare gli investimenti coerentemente alle esigenze strategiche del Sistema Paese. Territori poveri avrebbero una portualità povera rispetto a territori ricchi – come avvenuto per la Sanità – . E’ dannoso continuare a dare più peso specifico politico agli Enti locali che alle esigenze nazionali logistiche e trasportistiche complessive; se questo non si vuole, si abbia il coraggio – questa volta si ‘politico’ – di cambiare la legge Delrio e andare verso un modello di governance come l’Europa vuole. Lo stesso vale sottolineare che in un processo del trasporto marittimo in evoluzione, caratterizzato da una transizione energetica (decarbonizzazione), ecologica (deglobalizzazione), socio-economica e digitale di una rete informatica sempre più complessa, per un Sistema portuale non occorre aumentare l’offerta funzionale dei suoi porti – tutti non possono operare tutto – con le stesse funzioni trasportistiche per difficoltà geo-orografiche, sperperando denari pubblici per infrastrutture valide oggi e che domani risulterebbero obsolete.


“Le città-porto sono organismi caratterizzati da una crescente complessità e strategicità – ha commentato ultimamente il presidente di AdSPMAM, Ugo Patroni Griffi – per questo motivo le AdSP devono tempestivamente adeguarsi e rigenerarsi per poter adeguatamente rivestire ruoli ancora inesplorati. I nuovi orizzonti della portualità italiana, oltre ad essere caratterizzati dalle dinamiche dei traffici, saranno influenzati dalle complesse forme di dualismo che possono emergere durante i processi di rigenerazione dei bordi fisici, tra spazi urbani e aree portuali, riconducendole verso una visione integrata e osmotica”.


E allora come si creano le infrastrutture del consenso? Come costruire consenso e cittadinanza competente? Si può guarire dalla sindrome di Nimby, da quella di Nimto (Not In My Term of Office)?

Abele Carruezzo